Il 28 maggio 2025 segnerà il quarantacinquesimo anniversario dell’omicidio di Walter Tobagi, un giornalista del Corriere della Sera assassinato a Milano da un gruppo terroristico di estrema sinistra noto come “Brigata 28 marzo“. La sua morte ha lasciato un segno profondo nella storia del giornalismo italiano e ha aperto un dibattito sul terrorismo e la libertà di stampa. La tragedia colpì non solo il mondo dell’informazione, ma anche la sua famiglia, in particolare sua figlia Benedetta, che si trovò a fronteggiare il dramma di perdere il padre in modo così violento.
La tragica notte dell’omicidio
Walter Tobagi fu ucciso a pochi passi dalla sua abitazione a Milano, dove un commando armato lo attese e aprì il fuoco. La scena fu devastante: cinque colpi di pistola furono esplosi, di cui due furono fatali. I responsabili diretti dell’omicidio furono identificati in Mario Marano e Marco Barbone, i quali non esitarono a colpire il giornalista. Un proiettile si conficcò dietro l’orecchio sinistro di Tobagi, ma il colpo mortale fu quello che raggiunse il suo cuore. La figlia, accorsa con la madre, assistette al dramma e si trovò a dover affrontare la realtà della morte del padre in un momento di grande angoscia.
La Brigata 28 marzo, che si assunse la responsabilità dell’atto, era un gruppo radicale che operava in un contesto di violenza politica e sociale. La scelta di colpire Tobagi non fu casuale; egli era un giornalista che si era distinto per la sua analisi approfondita del terrorismo, cercando di comprendere le sue radici e le sue conseguenze. Questo lo rese un obiettivo pericoloso per i gruppi estremisti, che lo vedevano come una minaccia per la loro ideologia.
Il processo e le condanne
L’omicidio di Walter Tobagi portò a un lungo e complesso processo che coinvolse vari membri del commando. Marco Barbone, uno dei principali esecutori, fu arrestato e successivamente collaborò con la giustizia, contribuendo a smantellare la Brigata 28 marzo. La sua collaborazione portò a un maxi processo che coinvolse oltre 150 imputati, ampliando il focus oltre l’omicidio di Tobagi e includendo l’intera area sovversiva di sinistra.
Le condanne furono variegate. Marco Barbone ricevette una pena di 8 anni e 9 mesi, ma scontò solo 3 anni grazie alla libertà provvisoria. Paolo Morandini, complice di Barbone, ricevette la stessa condanna. Mario Marano, che sparò il primo colpo, fu condannato a 20 anni e 4 mesi, pena ridotta a 10 anni grazie alla sua collaborazione. Manfredi De Stefano, un altro membro del commando, morì in carcere per un aneurisma dopo essere stato condannato a 28 anni e 8 mesi. Daniele Laus, l’autista del gruppo, ottenne una condanna a 16 anni, mentre Francesco Giordano, che coprì il commando, scontò l’intera pena di 30 anni e 8 mesi, uscendo nel 2004.
Il movente dell’omicidio
Il movente dietro l’omicidio di Walter Tobagi fu chiarito da Marco Barbone stesso. La Brigata 28 marzo decise di colpirlo perché lo considerava un avversario intellettualmente pericoloso. Tobagi non si limitava a riportare notizie, ma analizzava il fenomeno del terrorismo con uno sguardo critico e profondo. Barbone lo definì uno dei giornalisti più intelligenti, capace di entrare nel cuore della sinistra rivoluzionaria senza incitare all’odio.
Inoltre, Tobagi ricopriva un ruolo di rilievo come presidente dell’Associazione Stampa Lombarda, il sindacato regionale dei giornalisti, il che lo rese un obiettivo ancora più attraente per i gruppi armati. Barbone rivelò che il nome di Tobagi circolava tra i bersagli da colpire da tempo, evidenziando come la sua figura fosse percepita come una minaccia per le ideologie estremiste. La sua morte non rappresentò solo un attacco alla libertà di stampa, ma un tentativo di silenziare una voce critica in un periodo di grande tumulto politico e sociale in Italia.