Il regista Alessandro Piva, noto per il suo film del 1999 “LaCapaGira“, continua a esplorare la storia italiana attraverso il suo nuovo documentario “Fratelli di Culla“. Questo lavoro si concentra sull’ex Brefotrofio di Bari, un istituto che ha accolto neonati abbandonati dalle madri tra il dopoguerra e gli anni ’90. Attraverso le testimonianze di chi ha vissuto in questo luogo, Piva offre uno sguardo profondo e toccante su un capitolo spesso trascurato della nostra storia recente.
La genesi di Fratelli di Culla
Alessandro Piva ha vissuto per anni vicino al Brefotrofio di Bari, un’esperienza che ha ispirato la realizzazione di “Fratelli di Culla“. Il regista ha notato come l’istituto, nel corso degli anni, si fosse progressivamente deteriorato e ha iniziato a riflettere sulle storie di vita che vi erano legate. La scoperta di numerosi annunci online da parte di persone che cercavano informazioni sulle proprie origini biologiche ha ulteriormente stimolato la sua curiosità. Molti di questi appelli, carichi di emozione e disperazione, hanno colpito profondamente Piva, spingendolo a dare voce a queste storie nel suo documentario.
“Fratelli di Culla” si inserisce in un progetto più ampio che Piva ha avviato con il precedente documentario “Pasta nera“, che trattava dei bambini meridionali ospitati da famiglie del Centro-Nord dopo la Seconda Guerra Mondiale. Entrambi i lavori affrontano temi di grande rilevanza sociale, raccontando le esperienze di centinaia di migliaia di individui che hanno vissuto situazioni simili. Secondo stime, circa un milione di persone sono passate attraverso istituti come il Brefotrofio di Bari, una realtà di cui si parla raramente. Piva ha voluto dare loro il giusto spazio, portando alla luce storie dimenticate.
Le emozioni dietro le telecamere
Nel documentario, emerge una forte empatia verso gli adulti che un tempo erano bambini abbandonati. Piva ha incontrato le operatrici del Brefotrofio, che hanno condiviso ricordi vividi di un tempo in cui la struttura era un luogo di accoglienza e solidarietà. Anche se non erano direttamente coinvolte nelle adozioni, queste donne hanno dimostrato una connessione profonda con i bambini, creando una comunità femminile solidale all’interno dell’istituto.
Le interviste con i protagonisti del documentario hanno rivelato storie toccanti di scoperta e accettazione. Molti di loro hanno appreso solo in età adulta di essere stati adottati, e il confronto con il proprio passato ha suscitato emozioni intense. Durante le riprese, la troupe ha vissuto momenti di grande commozione, con membri che hanno dovuto interrompere le riprese per il forte impatto emotivo delle storie raccontate. Piva ha notato come i protagonisti, pur affrontando temi delicati, abbiano mostrato una sorprendente serenità, frutto di un equilibrio trovato tra il loro passato e le nuove opportunità offerte dalle famiglie adottive.
Le lotte femminili nel racconto
Un elemento centrale nel documentario è rappresentato dalle battaglie delle donne per i diritti civili, in particolare per l’aborto e il divorzio. Piva sottolinea come queste lotte abbiano avuto un impatto significativo sulla società italiana, contribuendo a un cambiamento culturale che ha portato alla chiusura di istituti come il Brefotrofio. Le conquiste ottenute dal movimento femminista hanno messo in discussione le strutture patriarcali e hanno aperto la strada a una nuova visione della maternità e della famiglia.
Il regista evidenzia come il femminismo abbia avuto diverse ondate, ognuna delle quali ha cercato di affrontare le ingiustizie sociali. Il movimento #MeToo, in particolare, ha rappresentato un tentativo di scardinare vecchi paradigmi e di promuovere una cultura di rispetto e uguaglianza. Tuttavia, Piva riconosce che il cambiamento richiede tempo e che le nuove generazioni sono più pronte ad affrontare queste sfide.
Le difficoltà nel rintracciare le origini
Un tema ricorrente nel documentario è la complessità burocratica che molti “fratelli di culla” affrontano nel tentativo di risalire alle proprie origini. La legge italiana degli anni ’80, nota come “legge dei 100 anni“, ha cercato di bilanciare il diritto all’anonimato delle madri con il diritto dei figli adottati di conoscere le proprie radici. Tuttavia, questa legge ha creato una situazione complicata, poiché molte madri hanno abbandonato i propri figli per costrizione, e le loro motivazioni rimangono spesso inespresse.
Piva sottolinea l’importanza di rivedere queste normative alla luce delle nuove esigenze sociali e sanitarie. In Europa, la tendenza sta cambiando, e si sta iniziando a riconoscere la necessità di garantire ai figli adottati l’accesso alle informazioni sulle proprie origini, soprattutto per motivi di salute. La questione rimane complessa, ma il regista è fiducioso che si stia avviando un cambiamento significativo nel modo in cui la società affronta il tema dell’adozione e delle origini biologiche.
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